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N° 7

I QUADERNI DI MATERIAS


LE DIMENSIONI DI IMPRESA:

il fenomeno delle PMI

di Damiano Lipani

Avvocato Studio legale Lipani Catricalà & Partners

10 - 2022

ISBN: 9788899620158


Prefazione

di Luigi Nicolais, Presidente di Materias

Le PMI ricoprono un ruolo cruciale per l’economia e per il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile (SDGs). In Europa, con la firma degli Accordi di Parigi ed il Green Deal, è stato avviato un cambio di rotta decisivo per dare una risposta netta alle complesse problematiche ambientali e sociali, senza rinunciare ad accrescere il proprio sistema produttivo, con una nuova politica industriale volta alla sostenibilità e all’innovazione. Si tratta di un nuovo modo di fare impresa basato sull’economia circolare che, nel caso dell’Italia, vede come protagoniste le piccole e medie imprese.

La nuova industria 4.0 nei suoi dettami racchiude nell’ambito dell’imprescindibile legame con l’innovazione le risposte per ripensare nuovi modi più efficienti e sostenibili di produzione e di consumo. Ricerca e innovazione sono le chiavi di volta della transizione digitale che permetteranno al nostro tessuto imprenditoriale di cambiare il volto dell’industria e di migliorarne la competitività. Quindi, gli obiettivi non sono più solo relativi a principi di redditività ma sono legati soprattutto al benessere di comunità e alla tutela e valorizzazione delle risorse.

La sfida di oggi, nell’ambito del PNRR, è fare rete tra le PMI creando un ecosistema dell’innovazione al fine di poter consolidare la propria presenza nelle catene del valore globali e trasformare i problemi del sistema produttivo in opportunità. Questo avviene solo creando un profondo legame di conoscenza e dialogo con il territorio, le comunità e valorizzando le risorse di prossimità attraverso la creazione di una brand identity locale. Gli strumenti della transizione digitale hanno permesso di creare una rete di condivisione tra attori pubblici e privati, piattaforme che vedono la partecipazione attiva tra produttori, fornitori e consumatori in un’ottica di creazione di valore anche attraverso lo scambio attivo di informazioni e di dati, introducendo asset immateriali strategici per la creazione di nuovi modelli di business. Questa è la quarta rivoluzione industriale, una rivoluzione culturale basata sulla relazione, la cooperazione, lo scambio, che supera la tradizionale separazione tra processo produttivo, prodotto e servizio. Il progetto di innescare questo nuovo paradigma deve partire dal fertile tessuto delle piccole e medie imprese e dalla loro sempre più impellente necessità di adattarsi al cambiamento tecnologico dettato dall’evolversi della globalizzata società del rischio e di poter usufruire di grandi opportunità nate dalla creazione di valore condiviso.

Ma cosa sono le PMI? In questo nuovo numero dei Quaderni di Materias abbiamo deciso di approfondirne il fenomeno, ospitando l’autorevole contributo dell’avvocato Damiano Lipani, dello studio legale Lipani Catricalà & Partners.

1. La categoria delle microimprese, delle piccole imprese e delle medie imprese: le PMI
1.1

La categoria delle microimprese, delle piccole imprese e delle medie imprese (PMI) è composta da imprese che occupano meno di 250 persone, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di euro (cfr. art. 2 dell’Allegato alla Raccomandazione del 6 maggio 2003, n. 361).

Una prima definizione di PMI di rilievo eurounitario è stata introdotta con la Raccomandazione della Commissione del 3 aprile 1996 n. 280. A seguito di un confronto tra la Commissione europea, gli Stati membri, le organizzazioni di imprese e gli esperti nonché all’esito di due consultazioni aperte, nel 2003, la definizione europea di PMI e la sua disciplina è stata modificata in modo da aggiornare l’istituto alla situazione economica generale e alle peculiarità cui devono far fronte le PMI. Questo percorso ha portato al varo dell’attuale Raccomandazione del 6 maggio 2003, n. 361 [1] relativa "lla definizione delle microimprese, piccole e medie imprese (in seguito anche solo la “Raccomandazione”). In particolare, la Raccomandazione identifica tre tipologie di imprese che appartengono alla più ampia categoria delle PMI e che differiscono tra loro per la dimensione o meglio nella medesima Raccomandazione vengono specificate determinate soglie al ricorrere delle quali, un’impresa può essere considerata: microimpresa, piccola impresa e media impresa e segnatamente:

  1. Le microimprese sono definite come quelle imprese che hanno meno di 10 occupati e realizzano un fatturato annuo (oppure hanno un totale di bilancio annuo) non superiore a 2 milioni di euro;
  2. Le piccole imprese sono definite come quelle imprese che hanno meno di 50 occupati e realizzano un fatturato annuo (oppure hanno un totale di bilancio annuo) non superiore a 10 milioni di euro;
  3. Le medie imprese sono definite come quelle imprese che hanno meno di 250 occupati e realizzano un fatturato annuo non superiore a 50 milioni di euro oppure (hanno un totale di bilancio annuo) non superiore a 43 milioni di euro.

Al fine di chiarire come debbano essere calcolati i requisiti dimensionali e di conseguenza verificare l’appartenenza o meno di una impresa ad una determinata categoria di PMI, l’articolo 4 dell’Allegato alla Raccomandazione del 6 maggio 2003, n. 361, rubricato “Dati necessari per il calcolo degli effettivi e degli importi finanziari e periodo di riferimento” dispone che: “I dati impiegati per calcolare gli effettivi e gli importi finanziari sono quelli riguardanti l’ultimo esercizio contabile chiuso e vengono calcolati su base annua. Essi sono presi in considerazione a partire dalla data di chiusura dei conti. L’importo del fatturato è calcolato al netto dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) e di altri diritti o imposte indirette”.

2. La disciplina delle PMI
2.1

L’istituto delle PMI ha una portata europea, oltre che nazionale e, pertanto, ai fini del tema trattato in questa sede è necessario riepilogare le fonti normative che verranno prese in considerazione.

Come visto, la Commissione europea - per quanto di sua competenza - ha definito l’istituto delle PMI con la Raccomandazione del 6 maggio 2003, n. 361 la quale può essere vista come il principale atto relativo alle politiche comunitarie applicate all’interno della Comunità e dello Spazio economico europeo (l’articolo 1 stabilisce che: “La presente raccomandazione riguarda la definizione delle microimprese, delle piccole imprese e delle medie imprese utilizzata nelle politiche comunitarie applicate all’interno della Comunità e dello Spazio economico europeo”).

2.2

Sebbene tra i destinatari della Raccomandazione ci siano anche gli Stati membri dell’Unione europea e, quindi, anche l’Italia sia tenuta alla sua applicazione (“Gli Stati membri, la BEI e il FEI sono destinatari della presente raccomandazione” art. 4, comma 1, della Raccomandazione), lo stato italiano con il Decreto del Ministero delle Attività Produttive del 18 aprile 2005 (in seguito anche solo “Decreto ministeriale – 18 aprile 2005") [2] ha "recepito con un proprio atto normativo la Raccomandazione per la determinazione della dimensione aziendale ai fini della concessione di aiuti alle attività produttive (l’art. 1 del Decreto ministeriale – 18 aprile 2005 stabilisce che: “Il presente decreto fornisce le necessarie indicazioni per la determinazione della dimensione aziendale ai fini della concessione di aiuti alle attività produttive e si applica alle imprese operanti in tutti i settori produttivi”).

Pertanto, sebbene le due discipline - europea e interna - siano sostanzialmente coincidenti, bisogna sottolineare che tecnicamente la disciplina europea andrà applicata ai fenomeni di matrice comunitaria mentre la disciplina interna regola le vicende di competenza dello stato italiano.

Infine, per dovere di completezza, bisogna rappresentare che nell’ordinamento italiano è presente un’altra particolare variante dell’istituto, la “PMI innovativa”, la quale è disciplinata dal D.L. 24 gennaio 2015 n. 3 il cui articolo 4 - rubricato “Piccole e medie imprese innovative” - afferma la necessità per le imprese in questione di rispettare i requisiti stabiliti dalla Raccomandazione relativa alla definizione delle microimprese, piccole e medie imprese (PMI). [3]

3. Le dimensioni di una PMI: l'imoresa autonoma, associata o collegata
3.1

La Raccomandazione, come anticipato, afferma che una impresa [4] può essere considerata PMI quando occupa “meno di 250 persone, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di EUR oppure il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di EUR” (art. 2 dell’allegato 1 alla Raccomandazione).

Ai fini della determinazione della qualifica di PMI e del rispetto delle soglie di cui sopra, la Raccomandazione prevede che si debbano tenere in considerazione ulteriori profili di natura sostanziale, evitando così che dietro ad un’impresa che formalmente rispetti i parametri sopra enunciati ci possa essere un gruppo imprenditoriale più vasto che sia in grado di incidere sulla capacità imprenditoriale della stessa snaturando così i principi europei che sono alla base della condizione di favore in cui versa una PMI.

L’accertamento dei criteri al ricorrere dei quali un’impresa può essere considerata PMI, tiene quindi in considerazione i possibili rapporti con altre imprese. In alcuni casi tali rapporti, soprattutto se creano collegamenti di proprietà importanti o danno accesso a ulteriori risorse finanziarie o di altro tipo, possono comportare il fatto che un’impresa non sia una PMI. Da ciò deriva la necessità rappresentata nel nono Considerando della Raccomandazione secondo il quale “Per meglio valutare la realtà economica delle PMI ed escludere dalla definizione i gruppi di imprese il cui potere economico supera quello di una PMI, è necessario distinguere i vari tipi di imprese: autonome, con partecipazioni che non implicano posizioni di controllo (imprese associate), oppure collegate ad altre imprese. Il livello del 25% di partecipazione quale soglia, indicata dalla raccomandazione 96/280/ CE, al di sotto della quale l’impresa è considerata autonoma, rimane immutato”.

Per elaborare i dati di cui tener conto e valutarli in rapporto alle soglie, occorre dunque stabilire preliminarmente se un’impresa è autonoma, associata o collegata.

3.2

La definizione di PMI, pertanto, opera una distinzione fra queste tre diverse categorie di imprese e ciascuna di esse corrisponde quindi a un archetipo di rapporto che si può stabilire tra un’impresa e un’altra. La finalità di questa distinzione è indispensabile per avere un’immagine realistica della situazione economica di una determinata impresa ed escludere di conseguenza quelle che non sono vere e proprie PMI.

Se l’impresa è autonoma, ai fini dei calcoli relativi al rispetto delle soglie che determinano la qualifica di PMI [5] , si terranno in considerazione solo i dati di questa, se invece un’impresa viene ritenuta associata o collegata ad altra o ad altre, i criteri di calcolo terranno in considerazione anche il “peso” che queste rivestono nell’assetto complessivo della impresa interessata alla qualifica di PMI.

3.2.1

Se un’impresa è definita come autonoma, utilizzerà per verificare se può essere considerata una PMI (e precisamente se rispetta le soglie indicate all’articolo 2 dell’Allegato alla Raccomandazione), solo il numero di dipendenti e i dati finanziari contenuti nei suoi conti annuali.

Prodromico al calcolo dei valori previsti dalla disciplina delle PMI, risulta quindi necessario capire se la singola impresa che vuole verificare la propria qualifica di PMI è associata o collegata ad una o più imprese.

La Raccomandazione afferma che “Si definisce ‘impresa autonoma’ qualsiasi impresa non identificabile come impresa associata ai sensi del paragrafo 2 oppure come impresa collegata ai sensi del paragrafo 3” (art. 3.1 dell’Allegato 1 alla Raccomandazione), utilizza quindi un criterio in negativo.

Preliminare a qualsiasi ulteriore analisi, risulta quindi indispensabile verificare quando due o più imprese possano essere ritenute collegate. La conseguenza che ne deriva dall’essere considerata appartenente a tale categoria è che, occorre aggiungere ai dati dell’impresa oggetto di valutazione come PMI, la totalità dei dati appartenenti all’impresa collegata per determinare se la prima rispetti le soglie di dipendenti (o meglio di effettivi [6]) e le soglie finanziarie stabilite nella Raccomandazione (cfr. artt. 4 e 6, par. 2 e 3 dell’Allegato alla Raccomandazione).

Le imprese collegate sono quelle che costituiscono un gruppo mediante il controllo diretto o indiretto della maggioranza dei diritti di voto di un’impresa da parte di un’altra o attraverso la capacità di esercitare un’influenza dominante su un’impresa.

Precisamente, l’art. 3.3 dell’Allegato 1 alla Raccomandazione afferma che “Si definiscono ‘imprese collegate’ le imprese fra le quali esiste una delle relazioni seguenti: a) un’impresa detiene la maggioranza dei diritti di voto degli azionisti o soci di un’altra impresa; b) un’impresa ha il diritto di nominare o revocare la maggioranza dei membri del consiglio di amministrazione, direzione o sorveglianza di un’altra impresa; c) un’impresa ha il diritto di esercitare un’influenza dominante su un’altra impresa in virtù di un contratto concluso con quest’ultima oppure in virtù di una clausola dello statuto di quest’ultima; d) un’impresa azionista o socia di un’altra impresa controlla da sola, in virtù di un accordo stipulato con altri azionisti o soci dell’altra impresa, la maggioranza dei diritti di voto degli azionisti o soci di quest’ultima.

Sussiste una presunzione juris tantum che non vi sia influenza dominante qualora gli investitori di cui al paragrafo 2, secondo comma, non intervengano direttamente o indirettamente nella gestione dell’impresa in questione, fermi restando i diritti che essi detengono in quanto azionisti o soci”.

In linea si pone anche la disciplina nazionale che all’art. 3.5 del Decreto ministeriale – 18 aprile 2005 stabilisce che “Sono considerate collegate le imprese fra le quali esiste una delle seguenti relazioni: a) l’impresa in cui un’altra impresa dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria; b) l’impresa in cui un’altra impresa dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria; c) l’impresa su cui un’altra impresa ha il diritto, in virtù di un contratto o di una clausola statutaria, di esercitare un’influenza dominante, quando la legge applicabile consenta tali contratti o clausole; d) le imprese in cui un’altra, in base ad accordi con altri soci, controlla da sola la maggioranza dei diritti di voto”.

Mentre le lettere a) e d) dei predetti articoli sono puntuali nel definire la circostanza al verificare della quale si può ritenere esistente il collegamento tra imprese (maggioranza dei voti esercitabili da parte di una impresa), le lettere b) e c) fanno riferimento ad un concetto non rigidamente definito (“influenza dominante”) e che deve essere interpretato e calato nella singola situazione fattuale.

In questo contesto bisogna rappresentare cosa si intenda per influenza dominante ai sensi della Raccomandazione.

Nella “Guida dell’utente alla definizione di PMI” emanata dalla Commissione europea viene affermato che “l’esercizio di un’influenza dominante sussiste ogniqualvolta le politiche operative e finanziarie di un’impresa sono influenzate in base ai desideri di un’altra impresa” e che ciò sussiste nei casi in cui “un azionista ha diritti di veto sulle decisioni strategiche dell’impresa, sebbene non abbia da solo il potere di imporre tali decisioni” (p. 36 Guida dell’utente alla definizione di PMI) ma anche quando sono presenti “diritti speciali che consentono all’azionista di minoranza di determinare il comportamento commerciale strategico dell’impresa destinataria, come il potere di nominare più della metà dei componenti del consiglio di supervisione o del consiglio di amministrazione”.

In questo secondo caso, è semplice affermare l’esistenza di una influenza dominante (in un determinato caso concreto) poiché questa circostanza è legata all’esistenza di un diritto di nomina (in favore del socio di minoranza) che determina la possibilità di scegliere la maggioranza dei membri di un determinato organo societario da parte di chi non detiene la maggioranza del capitale sociale.

Più complicato è il caso dell’esistenza di un diritto di veto in favore di un determinato socio (o in capo all’amministratore espressione di un determinato socio) poiché la mera presenza di un tale diritto di veto non può far propendere per l’automatica sussistenza di una posizione di una influenza dominante in favore di tale soggetto.

Infatti, nella prassi si assiste spesso alla previsione negli statuti delle società di un diritto di veto in favore di un determinato socio che concorre con uguali e concorrenti diritti di veto in capo agli altri soci.

Non in tutti i casi in cui esista un diritto di veto in capo ad un determinato socio (o in capo all’amministratore espressione dello stesso) ci sarà sicuramente l’esistenza di una influenza dominante sulle scelte della società, poiché questa sussiste solo quando il socio “ha diritti di veto sulle decisioni strategiche dell’impresa, sebbene non abbia da solo il potere di imporre tali decisioni” e ciò comporta che “le politiche operative e finanziarie di un’impresa sono influenzate in base ai desideri di un’altra impresa”.

Negli statuti delle PMI costituite sotto la forma giuridica di società a responsabilità limitata (S.r.l.), sovente si trovano diritti di veto in capo ad un amministratore nominato da un determinato socio che da solo non avrebbe la maggioranza dei voti, né all’interno del Consiglio di Amministrazione né nell’Assemblea dei soci.

L’interprete, nel valutare l’esistenza di una possibile situazione di influenza dominante nei casi di esistenza di un diritto di veto, deve procedere ad una analisi attenta e che colga gli effetti sostanziali che l’uso di una tale diritto comporta sulle scelte gestionali della società.

In primis risulta necessario comprendere quali delibere previste dal singolo statuto e oggetto di possibile veto possano farsi rientrare nella categoria delle “decisioni strategiche dell’impresa”. Per decisioni strategiche possono considerarsi quelle che incidono:

  1. sulla definizione del mercato da servire o dei prodotti da offrire;
  2. sugli investimenti in ricerca e sviluppo;
  3. sulla ristrutturazione delle attività produttive.

Devono dunque riguardare le scelte fondamentali dell’impresa e non aspetti marginali della stessa. Se il diritto di veto non incide su “decisioni strategiche dell’impresa” questo non comporta l’esistenza di una influenza dominante. Nel caso in cui il diritto di veto sia previsto relativamente a “decisioni strategiche dell’impresa”, tale circostanza può essere considerata solo come un indizio dell’esistenza di una influenza dominante ma non può essere considerato un elemento determinante.

Infatti, in molti statuti societari di Società a responsabilità limitata è previsto un meccanismo di veto plurimo attribuito a due o più soggetti relativamente alla stessa decisione e in questi casi può non sussistere una influenza dominante da parte di uno singolo socio.

Invero, è ragionevole ritenere che nei casi in cui ci siano più titolari di un potere di veto e non sussista un coordinamento tra i medesimi, è impedito l’esercizio di un’influenza dominante.

Il potere di veto previsto in favore del socio (nei cui confronti va verificata la presenza di una influenza dominante) viene sterilizzato da quello esistente in favore di uno o più soci, poiché nel caso in cui questi ultimi oppongano il loro veto, il potere in capo al primo diviene irrilevante, non essendo in grado il socio di far passare la propria posizione senza il consenso degli altri.

In questi casi, il potere di veto plurimo ha come effetto quello di determinare la necessità che una decisione sia condivisa da un’ampia platea di soggetti e quindi ha la funzione di aumentare la democraticità della decisione.

In ultimo, bisogna rappresentare come di frequente negli Statuti delle PMI viene contemplato un meccanismo di decisione la cui esistenza può far deporre per l’assenza di influenza dominante da parte di un determinato socio anche nel caso di veto riconosciuto solo in favore di un unico socio.

Lo statuto può prevedere che su richiesta di almeno uno degli amministratori, sia possibile sottoporre all’esame e alla votazione dell’assemblea un determinato argomento con ciò superando il possibile veto espressa, poiché la decisione dell’Assemblea prevale e sostituisce quella presa dal Consiglio di Amministrazione ed in cui è stato utilizzato il diritto di veto.

3.2.2

Le imprese associate sono “tutte le imprese non identificabili come imprese collegate ai sensi del paragrafo 3 e tra le quali esiste la relazione seguente: un’impresa (impresa a monte) detiene, da sola o insieme a una o più imprese collegate ai sensi del paragrafo 3, almeno il 25% del capitale o dei diritti di voto di un’altra impresa (impresa a valle)” (art. 3.2 dell’Allegato 1 alla Raccomandazione)[7]. La conseguenza che ne deriva dall’essere considerata appartenente a tale categoria è che l’impresa oggetto di valutazione come PMI deve sommare ai propri dati una quota del valore degli effettivi e degli elementi finanziari dell’impresa associata al momento di determinare la propria ammissibilità alla condizione di PMI.

La quota da aggiungere rifletterà la percentuale di capitale o di diritti di voto che è detenuta nell’impresa oggetto di valutazione come PMI (“L’aggregazione è effettuata in proporzione alla percentuale di partecipazione al capitale o alla percentuale di diritti di voto detenuti (si sceglie la percentuale più elevata fra le due”) art. 6, par. 2 dell’Allegato 1 alla Raccomandazione).

Dunque, se un’impresa ha una partecipazione pari al 35% in un’altra impresa, quest’ultima dovrà aggiungere il 35% degli effettivi dell’impresa associata, del suo fatturato e del suo totale di bilancio ai propri dati al fine di verificare la propria ammissibilità alla condizione di PMI.

Ad esempio, se le imprese A e B sono associate ai sensi della Raccomandazione, e l’impresa A e detiene una percentuale del 40% del capitale di B, l’impresa B al fine di verificare la propria ammissibilità alla condizione di PMI dovrà quindi sommare ai propri dati il 40% dei dati di A. Nel caso in cui vi siano più imprese associate, il medesimo calcolo dovrà essere effettuato per ciascuna impresa associata situata immediatamente a monte o a valle dell’impresa oggetto di valutazione PMI (art. 6, par. 2 dell’Allegato 1 alla Raccomandazione dispone che “si aggregano i dati delle eventuali imprese associate dell’impresa in questione, situate immediatamente a monte o a valle di quest’ultima”) dovranno quindi essere sommati i dati – così calcolati – di ogni impresa associata a quelli dell’impresa oggetto di valutazione come PMI ed il cui totale rappresenterà la “dimensione” di quest’ultima.

Esistono però dei casi in cui anche se una impresa ha una partecipazione superiore al 25% del capitale o dei diritti di voto di un’altra impresa (ma inferiore al 50%), queste due non si considerano associate e quindi non devono sommare i propri dati.

L’art. 3.2 dell’Allegato 1 alla Raccomandazione, infatti dispone che un’impresa può ancora essere considerata autonoma, e quindi priva di imprese associate, anche se questa soglia del 25% è raggiunta o superata da uno dei seguenti tipi di investitori:

  • società pubbliche di partecipazione, società di capitali di rischio e business angels;
  • università e centri di ricerca senza scopo di lucro;
  • investitori istituzionali, compresi i fondi di sviluppo regionale;
  • autorità locali autonome aventi un bilancio annuale inferiore a 10 milioni di euro e meno di 5.000 abitanti.
  • [8]

Uno o più degli investitori summenzionati possono quindi avere una partecipazione fino al 50% in un’impresa, purché non siano collegati, a titolo individuale o congiuntamente, all’impresa oggetto della valutazione per determinare se sia qualificabile come PMI.

In linea si pone anche la disciplina nazionale che al punto 2 dell’appendice al Decreto ministeriale – 18 aprile 2005 afferma che: “Qualora gli investitori di cui all’art. 3, comma 3, lettere a), b), c) e d) non intervengano direttamente o indirettamente nella gestione dell’impresa in questione, fermi restando i diritti che essi detengono in quanto azionisti o soci, gli stessi non sono considerati collegati all’impresa stessa”.

Ciò posto bisogna rappresentare che non sempre per l’interprete è agevole capire se una determinata impresa rientra nelle eccezioni previste.

4. Le eccezioni al concetto di imprese associate
4.1

Prima di analizzare le singole eccezioni (rectius: dei tipi di investitori di cui sopra), è imprescindibile identificare i motivi che sono alla base della normativa poiché forniscono un supporto interpretativo necessario alla corretta applicazione delle disposizioni in commento ai singoli casi concreti. La ratio delle eccezioni previste nell’art. 3 dell’Allegato 1 alla Raccomandazione è espressa nel decimo Considerando della stessa, in cui si afferma che: “Per promuovere la costituzione di imprese, il finanziamento delle PMI con fondi propri e lo sviluppo locale e rurale, le imprese devono poter essere considerate autonome anche in presenza di una partecipazione uguale o superiore al 25%, di determinate categorie di investitori che svolgono un ruolo positivo per tali finanziamenti e tali costituzioni. È tuttavia opportuno precisare le condizioni applicabili a tali investitori. Le persone fisiche o gruppi di persone fisiche che svolgono attività regolare di investimento in capitali di rischio (‘business angels’) sono menzionate in modo specifico poiché, rispetto agli altri investitori in capitale di rischio, la loro funzione di fornire appropriata consulenza ai nuovi imprenditori rappresenta un contributo prezioso. Il loro investimento in capitale proprio fornisce anche un complemento all’attività delle società di capitale di rischio, fornendo importi più limitati in stadi precoci dell’esistenza dell’impresa”.

Per l’interprete, la maggior parte dei soggetti indicati dall’art. 3.2 dell’Allegato 1 alla Raccomandazione, costituiscono soggetti giuridici la cui definizione è di facile intellezione essendo ben definiti anche all’interno dell’ordinamento giuridico italiano (società pubbliche di partecipazione, università e centri di ricerca senza scopo di lucro, investitori istituzionali, compresi i fondi di sviluppo regionale, autorità locali autonome aventi un bilancio annuale inferiore a 10 milioni di euro e meno di 5.000 abitanti). Maggiore attenzione deve invece essere utilizzata nell’identificare quando un investitore può essere considerato appartenente alla categoria delle società di capitali di rischio e dei business angels.

4.2

Appartengono alla categoria dei business angels quei soggetti privati (persone fisiche o gruppi di persone fisiche), esercitanti regolare attività di investimento in capitali di rischio che conferiscono fondi propri in imprese non quotate, a condizione che il totale investito dai suddetti in una stessa impresa non superi il 1.250.000 euro. Nella “Guida dell’utente alla definizione di PMI emanata dalla Commissione europea” viene inoltre specificato che i business angels “investono unicamente il loro denaro nelle PMI o alternativamente investono in consorzi dove in genere un investitore («angel») del consorzio assume la leadership. I «business angels» non hanno alcun legame familiare precedente con l’impresa e prendono le loro decisioni di investimento autonomamente invece che mediante un dirigente indipendente. L’investitore (angel) leader del consorzio o quello che investe da solo seguirà in genere l’investimento dopo la sua realizzazione osservando e fornendo le proprie conoscenze, esperienze e il proprio sostegno all’impresa oggetto dell’investimento mediante tutoraggio”.

4.3

La “società di capitale di rischio” è una categoria di difficile definizione in assenza di parametri normativi certi ma di grande interesse, poiché nella prassi si osservano molti casi in cui la partecipazione detenuta in una PMI (e superiore al 25% del capitale) avviene attraverso una società che ricopre la qualifica di socia di quest’ultima.

Risulta perciò essenziale comprendere il significato da attribuire a tale categoria.

La Raccomandazione non specifica il significato di “società di capitale di rischio”, ma la “Guida dell’utente alla definizione di PMI” emanata dalla Commissione europea nel definirla stabilisce che “un fondo di private equity o di capitale di rischio è un veicolo per permettere investimenti collettivi da parte di diversi investitori in capitale proprio e titoli connessi a capitale di rischio (come il quasi capitale) di imprese (imprese oggetto di investimento). Si tratta in genere di imprese private le cui azioni non sono quotate in nessuna borsa. Il fondo può assumere la forma di un’impresa o di un accordo privo di responsabilità giuridica come una società in accomandita semplice. In sostanza, un’impresa privata di capitale proprio o di capitale di rischio può essere un’impresa o una società in accomandita semplice: alcune sono quotate in borsa. Le imprese di capitale di rischio investono con l’intenzione di partecipare alla crescita del valore dell’azionista realizzando un profitto (vale a dire la vendita delle azioni). Questo aspetto può essere incluso nello statuto della società”.[9]

Questa definizione non utilizzando precise e puntuali categorie giuridiche risulta non idonea a chiarire il significato; si rende invece più utile la definizione data dal Decreto ministeriale – 18 aprile 2005.

Ai sensi del punto 2 dell’appendice [10] al Decreto ministeriale 18 aprile 2005 si afferma che: “Per società a capitale di rischio si intendono le società che, in funzione di disponibilità finanziarie proprie, effettuano professionalmente in via esclusiva o prevalente investimenti nel capitale di rischio tramite l’assunzione, la valorizzazione, la gestione e lo smobilizzo di partecipazioni (venture capital)”.

4.3.1

Tanto premesso, bisogna verificare quando una società può essere considerata una società che effettua “professionalmente in via esclusiva o prevalente investimenti nel capitale di rischio”. È necessario altresì valutare che la medesima società non rientri in quella categoria definita dalla Guida dell’utente alla definizione di PMI della Commissione europea come società di capitale di rischio di tipo corporativo, nella quale un’impresa ordinaria sceglie come attività secondaria quella di investire denaro in un’altra impresa (in genere una start-up) continuando la sua attività principale [11]. L’appartenenza di un’impresa a questa categoria, simile ma non uguale a quella di società di capitale di rischio, determina l’impossibilità per il soggetto che ne ha le caratteristiche di essere considerato uno di quei investitori la cui partecipazione non rileva ai fini della qualificazione come impresa associata o autonoma ex art. 3 dell’Allegato 1 alla Raccomandazione. Con la conseguenza che i dati di quest’ultimo soggetto entreranno nel perimetro del calcolo dei valori da sommare al momento di determinare la ammissibilità alla condizione di PMI della impresa di cui è socio.

Senza alcuna presunzione di esaustività si può ritenere che si rientra nella predetta categoria di società di capitale di rischio quando la società svolge una delle seguenti attività:

  • attività di pura holding, la cui attività principale consiste nel detenere la proprietà di un gruppo. In particolare, tale attività si concretizza nella detenzione del capitale di altre imprese senza intervenire nella gestione e nell’amministrazione delle stesse.
  • Attività di family office. Affine alla attività di holding è quella di family office, che può essere definito come quella società che gestisce il patrimonio di una o più famiglie facoltose agendo come centro di coordinamento per la gestione finanziaria e amministrativa del loro patrimonio. Nel momento in cui tale società svolge attività di mera gestione del patrimonio si può ritenere che rientri appieno nella categoria in questione. Le attività possono essere:
    • di detenzione del capitale di altre imprese senza intervenire nella gestione e nell’amministrazione delle stesse;
    • di investimento nel capitale di rischio tramite l’assunzione, la valorizzazione, la gestione e lo smobilizzo di partecipazioni;
    • di assunzione e gestione di titoli, di quote di fondi comuni di investimento, ecc.
    • Attività di venture capital. Una società può essere considerata di venture capital quando in funzione delle disponibilità finanziarie proprie, effettua professionalmente investimenti nel capitale di rischio tramite l’assunzione, la valorizzazione, la gestione e lo smobilizzo di partecipazioni.
    • Attività di assunzione e gestione di titoli, anche emessi da enti sovrani, di quote di fondi comuni di investimento e di partecipazioni in altre società od enti sia in Italia che all’estero con esclusione delle attività riservate per legge.

    Si può ragionevolmente evincere che una società che effettua una o più delle attività di cui sopra e quindi svolge “professionalmente in via esclusiva o prevalente investimenti nel capitale di rischio”, rientri appieno nella categoria di società di capitali di rischio. Pertanto, se una società appartiene alla categoria delle società di capitali di rischio, questa potrà detenere una partecipazione fino al 50% in un’altra impresa senza che quest’ultima debba sommare i propri valori a quelli della impresa socia a fini della valutazione per determinare se sia qualificabile come PMI. In questi casi quindi le due società non verranno considerate come associate ma autonome, purché non siano altresì tra loro collegate.

Note

  1. Raccomandazione della Commissione relativa alla definizione delle microimprese, piccole e medie imprese [notificata con il numero C (2003) 1422].[TORNA SU]
  2. Decreto del Ministero delle Attività Produttive 18 aprile 2005 (in Gazz. Uff., 12 ottobre, n. 238) - Adeguamento alla disciplina comunitaria dei criteri di individuazione di piccole e medie imprese.[TORNA SU]
  3. Art. 4 del decreto legge D.L. 24 gennaio 2015, n. 3 rubricato “Piccole e medie imprese innovative” dispone che: “1. Per “piccole e medie imprese innovative”, di seguito “PMI innovative”, si intendono le PMI, come definite dalla raccomandazione 2003/361/CE, società di capitali”.[TORNA SU]
  4. Per la Corte di giustizia europea e più in generale a livello europeo, per impresa si intende ogni entità, a prescindere dalla forma giuridica rivestita, che eserciti un’attività economica. Anche l’art. 1 dell’Allegato alla Raccomandazione dispone che “Si considera impresa ogni entità, a prescindere dalla forma giuridica rivestita, che eserciti un’attività economica”.[TORNA SU]
  5. Se un’impresa è autonoma, utilizzerà pertanto solo il numero di dipendenti e i dati finanziari contenuti nei suoi conti annuali per verificare se rispetta le soglie indicate all’articolo 2 dell’Allegato alla Raccomandazione.[TORNA SU]
  6. Gli effettivi corrispondono al numero di unità lavorative-anno (ULA), ovvero al numero di persone che, durante tutto l’anno in questione, hanno lavorato nell’impresa o per conto di tale impresa a tempo pieno. Cfr. art. 5 dell’Allegato alla Raccomandazione del 6 maggio 2003, n. 361.[TORNA SU]
  7. Cfr. art. 3.3 del Decreto ministeriale – 18 aprile 2005 che afferma: “Sono considerate associate le imprese, non identificabili come imprese collegate ai sensi del successivo comma 5, tra le quali esiste la seguente relazione: un’impresa detiene, da sola oppure insieme ad una o più imprese collegate, il 25% o più del capitale o dei diritti di voto di un’altra impresa.
    La quota del 25% può essere raggiunta o superata senza determinare la qualifica di associate qualora siano presenti le categorie di investitori di seguito elencate, a condizione che gli stessi investitori non siano individualmente o congiuntamente collegati all’impresa richiedente:
    a) società pubbliche di partecipazione, società di capitale di rischio, persone fisiche o gruppi di persone fisiche esercitanti regolare attività di investimento in capitale di rischio che investono fondi propri in imprese non quotate a condizione che il totale investito da tali persone o gruppi di persone in una stessa impresa non superi 1.250.000 euro;
    b) università o centri di ricerca pubblici e privati senza scopo di lucro;
    c) investitori istituzionali, compresi i fondi di sviluppo regionale;
    d) enti pubblici locali, aventi un bilancio annuale inferiore a 10 milioni di euro e meno di 5.000 abitanti”.[TORNA SU]
  8. L’art. 3 dell’Allegato 1 alla Raccomandazione, dispone che “Un’impresa può tuttavia essere definita autonoma, dunque priva di imprese associate, anche se viene raggiunta o superata la soglia del 25 %, qualora siano presenti le categorie di investitori elencate qui di seguito, a condizione che tali investitori non siano individualmente o congiuntamente collegati ai sensi del paragrafo 3 con l’impresa in questione:” “a) società pubbliche di partecipazione, società di capitale di rischio, persone fisiche o gruppi di persone fisiche, esercitanti regolare attività di investimento in capitali di rischio (“business angels”) che investono fondi propri in imprese non quotate, a condizione che il totale investito da suddetti “business angels” in una stessa impresa non superi 1250000 EUR (...)”.[TORNA SU]
  9. Guida dell’utente alla definizione di PMI della Commissione europea p. 35.[TORNA SU]
  10. Allegato 1 - Appendice - NOTE ESPLICATIVE SULLE MODALITÀ DI CALCOLO DEI PARAMETRI DIMENSIONALI.[TORNA SU]
  11. “Le società di capitale di rischio di tipo corporativo sono considerate imprese ordinarie (per es. nel settore farmaceutico, dei trasporti, dell’energia ecc.) che scelgono come attività secondaria di investire denaro in un’altra impresa (in genere una start-up) continuando la loro attività principale. Non sono quindi il tipo di investitori considerati nel contesto dell’articolo 3, paragrafo 2, lettere a)-d). Questa linea di pensiero è sostenuta dal regolamento (UE) n. 345/2013 (17) relativo ai fondi europei per il venture capital, in cui il venture capital societario non sarebbe ammissibile alla denominazione EuVECA” (p. 35 della Guida dell’utente alla definizione di PMI della commissione europea).[TORNA SU]

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